Conoscenza di Petroni (1934)

«Il Campano», a. X, n.2, Pisa, marzo-aprile 1934, pp. 15-17.

Conoscenza di Petroni

È utile in un articolo che non cerca tanto di raggiungere stretto rigore critico quanto di mettere in rilievo alcuni tratti di un poeta nuovo e in via di formazione, indicare inizialmente un carattere generale entro cui poter poi esaminare le qualità piú intime e sostanziali della poesia studiata.

Per la poesia di Guglielmo Petroni il carattere piú generale consiste nella sua toscanità sobria e senza fasto verbale, assai differente da quella di tanti altri scrittori toscani che si fanno voluttà della loro abbondanza di parole e si illudono cosí di non conquistate ricchezze. Una toscanità che si intona anche alla tinta poco chiassosa e all’atmosfera familiare, provinciale della città del nostro poeta.

E si avvertono queste voci della sua Lucca quando prevale il ricordo che è uno dei motivi piú facilmente isolabili nella poesia di Petroni. Questa tendenza all’autobiografia e al racconto lo porta spesso ad un limite non ben chiarito tra prosa e poesia, ad un tono volutamente bambinesco che non si regge se non in pochissimi casi e può esser anche preso per calligrafismo della piú bell’acqua.

Sí brani intelligenti e riusciti non mancano:

Il vento ci portava le foglie,

la caserma gli squilli

e il rumore di tanti cavalli:

le prigioni dal muro grandissimo

ogni tramonto rosso, una paura.

oppure:

erano i giorni buoni che penso ancora,

tracce di solitudine

che non cancello mai:

tiepidezza materna...

ma questo tono è di rado raggiunto e gli si accompagna un fare volutamente sciatto che sarebbe falsissimo chiamare primitivo:

nella via passavano certe cariche

di ceste e di cordami come pensare a Betlem.

Questo motivo è stato quello che mi ha colpito per primo quando ho lette tutte di fila le poesie di Petroni appiccicate da lui su di un album da francobolli che dà nella lettura un suo sapore gustoso di scherzo infantile (ho cosí letto Ultima luce sotto la voce Austria, la poesia premiata dalla «Cabala» sotto Belgio e chissà quale poesia attendono ora la Bulgaria e la Cecoslovacchia!); ma in seguito sono affiorati alla mia attenzione altri motivi. Anzitutto mi è sembrato bene seguire quella che potrei chiamare a scopo esplicativo tendenza pittorica: Petroni è anche pittore (anzi è da certi suoi disegni sul «Selvaggio» che l’abbiamo conosciuto per la prima volta) e la sua sensibilità per questa esperienza (o l’esperienza per quella sensibilità?) è essenzialmente coloristica. Basta leggere Il guanto nero per convincersi che egli tende spessissimo a dare toni di colore piú che accenti musicali e a fare le parole portatrici di luce:

Nella piazza, donna

vestita vermiglio, la piazza

tutta s’è persa

nel piccolo corpo rosso

d’esile donna.

Solo una mano

inguantata di nero, resiste

lontana; lontana

da quel colore che distrugge

perfino i rumori piú scaltri.

Solo la mano nervosa, inguantata

resiste lontana: lontana

come non fosse sua.

Tutto il valore della poesia è evidentemente in quel contrasto fra il colore vermiglio che emana dal corpo della donna e che si spande a coprire tutto ed il colore nero tenace a resistere alla sopraffazione rossa (non ho, forse, visto una concezione simile in un quadro di Boldini?).

Questa tendenza è carica di pericoli, potrebbe portarlo a poesie senza ordito, senza forte coerenza, ma piuttosto a macchie, a centri luminosi in contrasto, a frammenti ed io gli consiglierei sempre di rivolgersi, quando sia preso da tali esigenze crudamente coloristiche, al pennello piuttosto che alla penna.

Di tali consigli (consigli soprattutto tecnici) avremmo potuto dargliene anche altri a Petroni sia riguardo al ritmo metrico (specie quando entra nel regno terribile dell’endecasillabo), sia per certe evitabili reminiscenze (c’è perfino un gozzaniano «riposo delle cose morte»), ma dato il carattere di questo articolo di presentazione è preferibile insistere sulle sue possibilità artistiche migliori strettamente collegate alle sue qualità umane.

Quando ripenso a Petroni e all’impressione morale che me ne sono fatto, capisco meglio anche la sua poesia senza slanci eccessivi, un po’ mormorata, come rallentata da speciali procedimenti (cosí sono sue certe posizioni di aggettivi dopo il sostantivo in funzione di prolungamento:

la torre s’è difesa

nelle sue mura scure:

o:

le voci si nascondevano tutte,

oppure:

ora io son preso dai paesaggi nostri).

Allora capisco davvero le sue esperienze poche e limitate in estensione: non tanto esperienze culturali (quelle che ci portano lontano nei mondi piú terrestri e piú fantastici e ci rendono il passato presente, ma troppo spesso il presente velato d’una noiosa patina di passato), né esperienze di fredda intelligenza (le nostre ansie dialettiche e i puri giuochi della logica) quanto esperienze di «naturale» uomo.

Intorno a questa sua reale primitività, a questa sua facoltà di veder le cose e non i nomi, sorgive, virginali si annodano le possibilità poetiche migliori di Petroni e, quantitativamente, le sue migliori creazioni. Scrive egli stesso autobiograficamente: «Noi siamo di quei ragazzi che nascono nella Toscana, senza una gran voglia di studiare e con il desiderio di restare al sole di mezzogiorno guardando il paese che ci empie, insieme alla nostra vita attiva, la prima esperienza» e, d’altra parte, sente con sincera umanità che «le passioni, i desideri, l’amore sono arrivati a noi intatti, come erano per gli uomini delle caverne, perché ciò che è istinto è immutabile in qualsiasi ambiente».

Su questa strada della naturalezza, della primitività ci sono i pericoli già accennati di faciloneria e insieme di calligrafismo, ma c’è anche la possibilità di dare totali espressioni d’anima, non frammentini dosati e vagliati al lume della variabile moda.

È cosí che Petroni ha delle sensazioni nuove, da paradiso terrestre, indifferenziate sensazioni di piacere nella freschezza del grano nuovo e in quella dei seni di giovinette:

Nella freschezza e umidità leggera

di delicata nascitura cosa,

metto le mani sopra il grano nuovo

come toccare un bimbo appena nato...

o:

Se guardo pensando nel vuoto

tutte le bimbe dal seno cresciuto

mi sono vicine.

Le mani si passano spesso

sui seni leggeri.

Sguardi senza tracce di letteratura sul mondo esterno piú vicino, visto piú che a rilievo, a colore, a tono di luce. Leggendo questa delicata poesia intitolata Lago:

Tentennano le cime delle piante

e qualche uccello giravolta lieto

nel fondo chiaro, limpido del cielo:

l’acqua del lago stagna

e chiara luce spande

e bagna alle radici

i salici piegati, sofferenti

ci si accorge che il poeta vuol rendere soprattutto l’atmosfera luministica, insistere sul chiarore della luce e solo in ultimo in questa visione pacata, mormorata si inserisce il senso triste (ma d’una tristezza sognante, radicale nelle stesse cose di natura) dei salici piegati, sofferenti. Sono un po’ cosí tutte le cose del Petroni: sofferenza sí, ma sempre dominata dalla chiara luce, sofferenza felice d’essere al mondo, rassegnazione a non capire certe cose di mistero che restano lontane in grazia della serenità della natura.

Nulla di tragico perciò, di volutamente pessimistico, ma sempre un tono calmo, pausato internamente, capace di cose sicure e riposanti malgrado la qualità del soggetto; come questa poesia intitolata Sotto la loggia che per soggetto potrebbe essere una cosa sconvolta ed è resa dal dominio dell’artista meravigliata serenità:

Quel giorno che capii

che m’ero infranto

e languido fanciullo

restai immobile

sotto la verde loggia naturale

con sbigottito sguardo nuovo

stetti del tempo col pensiero chiuso

senza capire perché

di tante cose.

Tutte le qualità migliori che ho trovato nella ventina di liriche pubblicate da Petroni su vari giornali dal ’32 ad oggi le ritrovo unite, rinsanguate, elevate nella poesia premiata dalla «Cabala», e per quanto sforzo abbia fatto per non lasciarmi impressionare dal sapere che quella è la poesia premiata ho dovuto riconoscere a me stesso che nel resto della produzione del nostro non c’è nulla di cosí riuscito e di cosí rispecchiante le sue originali facoltà poetiche come questa composizione:

Che io considerassi pensandone male

la nascita di quel bambino era tanto

quanto il sorriso che ebbi per lui

e la sua vita nuova di zecca.

Nacque nei giorni tiepidi

quando la terra è vaporosa

e nuova che pare uguale

alla sua creazione:

il tempo era a quel punto

che avvisa i primi moti d’un rigoglio

col sole un’altra volta limpido

e sembra che prometta per sempre

quella stagione chiara.

La naturale donna

fu contenta del suo dolore

ed il pianto che n’ebbe

fu di smodato amore

per la piccola novità della sua casa.

Prima essa curava i fiori dell’orto

e ad essi tutto il paese, nei giorni di festa

portava uno sguardo allegro;

ora ogni pianta cade

ammarcita, il tempo ha ucciso

con l’ortica l’aiole

che furono le piú trionfali.

Ormai pensa solo al suo bimbo

e appare felice come

l’insidia della primavera.

Ogni cosa nostra,

per le grandi mani che accomodano

gli affetti nei seni

somiglia all’uomo che vidi scavare

fischiando sommesso, le fosse

nel camposanto adorno

della città in cui vivo.

So che durante la discussioni del premio si è fatta questione, specie da parte di Ungaretti, di pessimismo nella poesia di Petroni, ma a me sembra che tale questione prettamente contenutistica sia fuori di luogo come le querimonie filistee sulle apparenti oscurità di alcune frasi. Bisogna ricordare quello che ho già notato sul carattere pacato della poesia di Petroni per capire la linea di questo componimento che si sarebbe potuto intitolare: Naturalezza. La «naturale donna» campeggia infatti al centro della poesia costituendone l’anima e la piú bella concentrazione. Certo la parte centrale ha qualche incertezza di tessitura, un aspetto un po’ diluito che si riprende in versi totalmente poetici: «le aiole che furono le piú trionfali», «l’insidia della primavera» ecc. Mentre le cose piú compatte, di piú sicuro piglio, sono le frasi staccate a preludio e a fine della poesia: due frasi ricche, la prima piú affettiva e calda, la seconda elevata in un tono che, sempre restando sulla linea solita, supera per solennità ogni altra frase del nostro: Dio, natura sono le grandi mani che ci provvedono gli odi e gli amori, e di fronte ad esse tutto ciò che è umano agisce con la naturalezza leggermente rassegnata del becchino che lavora per la morte fischiando sommesso.

Ho letto questa poesia parecchie volte e quanto piú l’ho letta con calma, sommessamente, naturalmente, senza ombra d’enfasi, tanto piú ho compreso le sue doti positive, tanto piú ho aderito a questo canto cosí fresco e cosí poco superbo di voci grosse e di slanci letterari.